Dunque,
Florence Gordon di Brian Morton, da poco pubblicato da
Sonzogno nella traduzione di Maura Paolini e Matteo
Curtoni, e assai gentilmente speditomi dalla casa editrice.
La
casa editrice ha ripreso esattamente il titolo originale, così come
probabilmente l'ha voluto anche l'autore. Io più che “Florence
Gordon” e basta l'avrei chiamato “Florence Gordon & Family”,
visto che la famiglia del figlio di Florence ha un suo peso rilevante, anche indipendentemente dalla protagonista. E questa sul titolo è
l'unica critica che mi viene da fare al libro. Penso che da questo si
possa intuire il mio gradimento.
Florence
ha settantacinque anni, è una perfetta newyorchese, abita da sola e
nonostante il passare dei decenni continua a incontrarsi
periodicamente con le stesse amiche dai tempi del college. È una
femminista vecchio stampo, scrittrice di saggistica di nicchia, e sta
cercando di scrivere le sue memorie nonostante il mondo esterno,
nella forma di amici decisi a farle una festa a sorpresa e la
famiglia del figlio che si trasferisce a Manhattan per qualche tempo,
continui a mettersi in mezzo per toglierle le mani dalla tastiera.
Florence
è fantastica e basta. È dura, acuta, critica, immensamente giusta, anche
con se stessa. È quella persona che se uno passa davanti alla coda,
reagisce fino a farla scapicollare in fondo alla fila. E questo è
uno degli aspetti di Florence che si amano di più, ovvero che se è
convinta che qualcosa sia sbagliato, si metterà in mezzo senza stare
a filosofeggiare tanto. Che a volte le discussioni sono una scusa per
attardarsi, per non attivarsi, per vedere se qualcuno fa la prima
mossa. Florence no, lei parte, casomai scriverà poi un articolo postumo
all'azione, in cui parla dei perché e dei per come e farà
collegamenti sagaci con altri pensatori del passato recente.
Essendo
una vecchia femminista, Florence non è mai stata granché famosa. Ha
avuto un suo peso all'interno del movimento, il suo nome
compare talvolta nei saggi dedicati all'argomento, niente di più.
Finché un giorno il suo ultimo libro non viene recensito in termini
estremamente positivi sul New York Times, e nei circoli intellettuali
sparsi per tutti gli Stati Uniti si comincia a parlare di lei e delle
sue battaglie. E per Florence inizia un periodo di notorietà, in cui
non cambia poi molto. O meglio, è Florence che rimane Florence, in
tutta la sua gloriosa ostinazione.
Dicevo
che avrei aggiunto la famiglia di Florence al titolo. Una famiglia
che mi è piaciuta molto, in tutti i suoi componenti. Come elementi
narrativi e, dopotutto, anche come persone. Mi sono piaciuti il figlio
Daniel, inspiegabilmente poliziotto, sua moglie Janine, una psicologa
richiamata a Manhattan per contribuire a studi sperimentali, la loro
figlia diciannovenne Emily, che si è presa una pausa dal college e
non sa bene cosa fare della propria vita, ed è quella che riuscirà
ad avvicinarsi di più a Florence.
Sono
belli – o meglio, interessanti – i rapporti che intercorrono tra
loro. Quello che Florence pensa e prova per Janine, quello che Janine
pensa e prova per il marito Daniel, quello che Daniel prova e pensa
per Emily. Veniamo a sapere tutto, anche quello che uno pensa che
l'altro pensi, e questo è un aspetto che ho particolarmente
apprezzato. C'è una scena, verso la fine – non è uno spoiler,
promesso – in cui si trovano tutti in una stessa stanza, e ognuno
cerca di interpretare il comportamento dell'altro, fallendo
miseramente. Non c'è nulla di intenso in quella scena, non è un
momento chiave del libro né delle vite dei personaggi, ma mi è
piaciuto moltissimo per l'uso che ne ha fatto l'autore, e per come ha
saputo renderlo. In un libro ironico alla Woody Allen – quello
degli anni '80 – era necessario un attimo di “Siamo una famiglia
perlopiù unita, ci vogliamo bene, ma siamo persone distinte e questo
ci impedirà di capirci appieno.” Per me, ci voleva.
È
un libro divertente, leggero eppure davvero intelligente. Ho adorato
Florence, che ha sempre ragione, che odia i telefonini, che ancora
dopo decenni risparmia all'ex marito la verità sul suo fallimento.
Ho apprezzato moltissimo lo scorcio di New York, le riflessioni di
Emily, la sua necessità di andare a fondo su tutto, la sua ricerca
di un punto fermo. E i dialoghi tra Daniel e Janine, e quanto di loro
si è visto, anche se non tutto era bello e apprezzabile, da un punto
di vista umano.
Non
so come potrei non consigliarlo visceralmente, io questo libro l'ho
veramente adorato. Colgo invero il sub-odore di interessata disonestà
nel lodare così intensamente qualcosa che si è ricevuto in omaggio.
Me ne rendo conto. Però è ganzo, diamine, è ganzo al punto che ho
problemi a esprimerlo.
La
signora Melograno di Goli Taraghi – traduzione di Anna Vanzan –
Calabuig, 2014
Calabuig
è una casa editrice giovane, che ho citato un paio di post fa,
quando davo consigli su editori che si occupano anche di culture
geograficamente “altre”. Ho letto diversi dei libri che hanno
pubblicato, anche perché negli ultimi mesi me ne hanno spediti
diversi. Questo, che mi sono lietamente accaparrata in biblioteca,
forse è quello che ho preferito, insieme a Il trasloco di
Hebe Uhart. E dire che è una raccolta di racconti, e io di
solito i racconti non li reggo. Spero vivamente che la Taraghi abbia
pubblicato anche romanzi, e che la Calabuig in futuro li traduca.
Goli
Taraghi è iraniana, e questo si sente. Non nella scrittura, che è
bella e forbita, ma dopotutto occidentale, ma nei contesti e nei
personaggi. L'Iran emerge spesso in questi racconti, nelle sue
bellezze e nelle sue contraddizioni. Fortunatamente – per me –
nessun racconto era troppo corto perché non venisse a formarsi
un'ambientazione chiara e ben delineata. Come il villaggio rurale
nelle parole della signora Melograno, un'ottantenne persa nella
vastità dell'aeroporto di Teheran, che non riesce a capire come
arrivare fino in Svezia dai figli che non vede da dieci anni. Come la
rivoluzione del '79 che emerge dietro le lezioni di ballo di I fiori
di Shiraz, un gruppo di ragazzine allegre e movimentate, che un paio
di volte rimangono bloccate in palestra. Il terrore per i funzionari
governativi che tuttavia non riescono a intimorire né piegare la
nonna in Gentile ma ladro.
Ma
il contesto storico e sociale non è soverchiante rispetto alle trame
e ai personaggi. La Taraghi non voleva raccontare l'Iran facendo uso
di burattini di parole, tutt'altro. Il fatto è che mentre ai
personaggi succedevano certe cose, altre cose accadevano intorno a
loro, e sarebbe stato assurdo tacerle.
Compaiono
spesso viaggi e aerei, nei racconti. Un'unica protagonista è
emigrata in Francia, a Parigi, e vive in solitudine coi due figli
piccoli, terrorizzata dalla signora del piano di sotto, che chiama
Madame Lupo, che sale a lamentarsi per ogni più piccolo rumore. È
spaventata dai francesi, dalla loro scostarsi, dal loro sospetto.
Ricorda il villaggio, la famiglia, il calore. Curiosamente, mi ha
ricordato un po' le comunità di cui parla Wendell Berry.
Penso
si sia capito che mi è piaciuto un sacco, e conseguentemente lo
consiglio moltissimo.
La
ragazza dagli occhi verdi di Edna O'Brien – traduzione di Franca
Cavagnoli - edizioni e/o, 2010
Questo
libro è stato per me un errore. E non perché non mi sia piaciuto,
invero l'ho adorato, e divorato nel tempo di un'andata e un ritorno
in treno fino alla città della mia università. Peccato che, a
quanto pare, fosse il secondo volume di una trilogia iniziata, a
quanto ho intuito, con Ragazze di campagna, e terminata con
Ragazze nella felicità coniugale. Che ora voglio entrambi.
Violentemente. Infatti li ho piazzati nella lista di compleanno.
Dunque,
il libro si legge benissimo pur senza aver letto il volume
precedente, questo lo posso assicurare. Mi spiace solo di sapere
com'è finito il primo libro senza averlo letto, ecco. Accortezza.
Irlanda.
Un sacco di meravigliosa Irlanda, che per me è meravigliosa anche
quando non la è. La protagonista è Caithleen, una ragazza
cicciottella che lavora in un emporio a Dublino, vive con la migliore
amica Baba, e legge. Ogni tanto si imbucano a feste alle quali non
sono state invitate, cercano di divertirsi, ridono un sacco. Poi
Caithleen conosce Eugene, più grande di lei, raffinato, ben poco
irlandese. E la storia prosegue com'è ovvio che prosegua, almeno
fino a un certo punto. Il fatto è che Caithleen è, come dal titolo
del precedente libro, una vera ragazza di campagna.
È
un bel libro, con la sua storia d'amore, il suo scorcio d'Irlanda, le
sue risate. Consigliaterrimo.
Ordunque,
a mesi di distanza dalla lettura mi accingo finalmente a
scribacchiare di Copia-e-incolla di Danny Wallace,
edito da Feltrinelli nella traduzione di Alice Pizzoli.
Un libro che mi ha sempre attirata moltissimo, ma che soltanto dal
Libraccio mi sono finalmente decisa ad agguantare. Che poi mesi fa ho
regalato a mio padre un altro libro dello stesso autore, La
ragazza di Charlotte Street, di cui ricordavo di aver letto
ottime recensioni, ed è da allora che aspetto che si decida a
leggerlo per poterlo prendere in prestito. E diamine, padre, datti
una mossa.
È
un libro carino, senza troppe pretese, da buon umore. Lo dico in
senso molto positivo, anche se la mia reazione sembra tiepida. È uno
di quei libri che funzionano ottimamente da motivational, per nulla
impegnati ma non per questo stupidi, con una trama interessante,
plausibile ancorché machiavellica. Ganzo, sì.
C'è
il protagonista, Tom, che lavora in radio. Orari fortemente notturni,
che lo costringono in una vita monotona, ad andare a letto presto per
non arrivare al lavoro assonnato. Ha trent'anni, vive a Londra con la
sua ragazza, Hayley. Non è la felicità fatta persona, ma non è
neanche infelice. Solo che un giorno Hayley gli lascia un biglietto
orrendamente enigmatico. “Tom, me ne vado, ma non ti lascio. Tu
continua pure come sempre. Con amore, Hayley”, e coerentemente lui
va nel panico. Non capisce cosa sia successo, se Hayley abbia
intenzione di tornare, per quale motivo se ne sia andata. Cerca segni
della sua fuga ovunque, dai genitori, dagli amici, finché finalmente
non trova l'indizio decisivo, che lo porta in un hotel fuori città,
a una riunione di “copiatori”.
Scopre
che Hayley faceva parte di un gruppo che, seguendo i dettami di un
filosofo che andava forte negli anni '60-'70, copiava le persone. La
prassi consta nel scegliere una persona che sembra interessante,
seguirla per imparare e poi copiarla. E poi ripetere quando lo stile
di vita di quella persona viene a noia. E via così.
È
quello che Pia, una ragazza del gruppo, insegna a Tom, dopo averlo
seguito all'uscita dal gruppo. È quello che Tom, poco a poco,
impara. Impara qualcosa su di sé, sulla propria vita, sull'approccio
che ha al lavoro. Cambia, sì e no.
Ovviamente
c'è anche il contorno della vita di Tom. Il suo lavoro in radio, i
suoi colleghi, uno scandalo bizzarro che ha a che fare con la
marmellata, tirocinanti terrorizzati.
Un
difetto che riesco a trovare al libro è che inizia davvero tardi. La
trama si mette in moto, secondo me, nel momento in cui Tom trova
effettivamente l'indizio sul gruppo dei copiatori. Peccato che lo
scopra quando siamo già intorno alle 80-90 pagine. Quello che c'è
prima è un po' divertimento e un po' attesa. Quello che viene dopo,
invece, scorre meravigliosamente.
Lo
consiglio moltissimo. È, ribadisco, una lettura da buonumore, di
quelle che ogni tanto ci vogliono. E mette curiosità, ed è
costruita con intelligenza. Quindi sì. Consiglio.
Amedeo,
je t'aime di Francesca Diotallevi, edito da Mondadori nella neonata
collana ElectaStorie, e gentilmente inviatomi dalla casa editrice.
Di
Francesca avevo già letto e adorato il romanzo d'esordio, Le stanze buie, pubblicato un paio d'anni fa da Mursia. Tra l'altro è tra i finalisti del
Premio Neri Pozza, e le farei tutti i miei auguri se non fosse in
competizione con una delle mie migliori amiche. Quindi le faccio i
miei secondi migliori auguri, ecco, sperando che siano abbastanza.
Dunque,
Amedeo je t'aime. È diverso da Le stanze buie, come stile. Il primo
era pregno, inglese, si dilungava, stiracchiava i paragrafi per
abbellirli. Questo invece è più essenziale. Non secco, ma
diretto. Lo stile è sempre bello, ma meno involuto e alto.
Probabilmente non farei questa precisazione, se non avessi l'altro
romanzo come paragone.
Io
tristemente devo ammettere che Modigliani non lo conoscevo granché.
Non che non mi piaccia, anzi, l'ho sempre trovato più che
interessante come artista. Eppure non ne sapevo granché. Ricordavo
che era stato a Parigi, che aveva frequentato la cerchia di Picasso e
Braque, poi nient'altro. Credo dipenda dal fatto che la mia
professoressa di storia dell'arte, alle superiori, non lo amava
particolarmente. Deve averlo tralasciato come ha tralasciato Mirò,
concentrandosi su artisti per lei più importanti. Non giudicatela
male, è stata eccelsa e ho ricordi meravigliosi delle sue lezioni.
Però Modigliani mi è rimasto una mezza lacuna, finché non ho letto
questo libro. Non sapevo neanche perché il gatto di mia zia si
chiamasse Modì, per dire.
E
soprattutto, non sapevo di Jeanne Hébuterne. La sua compagna e la
sua musa fino alla fine, che in questo romanzo è protagonista e voce
narrante. Jeanne inizia a raccontare che ha ancora diciannove anni,
porta i capelli acconciati in un due lunghe trecce infantili,
frequenta l'accademia d'arte insieme all'amica Germaine. È il 1917 e
soffre per il fratello André, incagliato in trincea, in guerra. Vive
una vita tranquilla, salvo la preoccupazione per il fratello, e
conseguentemente per i genitori.
Poi
una sera incontra Amedeo, durante una festa. È riverso sull'erba a
decantare poesia, ubriaco. E chissà come, Jeanne se ne innamora.
Sembra
una storia d'amore. E lo è, innegabilmente. Ma è anche, e
soprattutto, una storia di ossessione. I primi incontri tra Jeanne e
Modigliani, un ritratto nello studio dell'artista. E poco a poco,
mentre si tuffano in una relazione intensa e dapprima segreta, per
Jeanne il resto del mondo scompare. Lei stessa scompare. Scompaiono
la famiglia, il fratello, per lei rimane solo Modigliani, come fine
ultimo, come universo intero. Tutto ciò che vive e pensa è per
Amedeo.
Si
può leggere in più modi, credo. Dopo un inizio che sapeva di storia
d'amore, ho iniziato a sentirmi disturbata dalla dedizione totale di
Jeanne per Amedeo. C'è un qualcosa – e non sono stata l'unica a
notarlo – di Romeo e Giulietta. Una follia reciproca. Tempo fa ho
sentito parlare della tragedia Shakespeariana da un punto di vista un
po' meno romantico. Ovvero, la storia di due ragazzini che, in quanto
ostacolati dalla famiglia, finiscono per idealizzare la propria
storia e per uccidersi. Ma cosa sarebbe stato di loro, se avessero
avuto tempo per crescere e conoscersi? Amedeo, je t'aime mi ha fatto
pensare un po' anche a questo. Anche se penso che molti lo leggeranno
come una splendida storia d'amore fatta di dedizione e sacrifici, da
parte di entrambi. Ed è una lettura più che giusta, probabilmente
più della mia.
Tra
l'altro, durante la lettura del romanzo, quando leggevo le parole che
Modigliani rivolgeva alla propria arte, dedicandovisi completamente,
capace di rinunciare a qualsiasi cosa per la propria Opera, ho
iniziato a pensare a una cosa. Ovvero a quanto sia cambiata la nostra
visione degli artisti, a quanto poco siamo disposti a concedere loro.
Amedeo Modigliani, che diamine, è Modigliani, diceva di non voler
fare altro tranne che il pittore, che non si sarebbe mai abbassato a
fare altri lavori per rispetto verso la propria arte. E pensavo a
come oggi non accorderemmo che disprezzo e compatimento a una persona
che si esprime in questo modo. Che magari sopporta la fame, il
rifiuto, la miseria, tutto perché crede di dovere qualcosa alla
propria arte.
Pensavo a quanto siamo solerti ad ammirare Rimbaud, Baudelaire, a
schierarci con Toulouse-Lautrec e con Modigliani stesso, ma se qualcuno
dovesse approcciarci oggi per parlarci negli stessi termini e darci
uno scorcio di vita vissuta per qualcosa di più alto, beh, il meglio
che può sperare è di essere cortesemente ignorato. E potrei inerpicarmi in oscuri anfratti filosofici a cercare una
risposta alle domande sulla natura dell'arte e la natura dell'uomo,
ma penso che ne caverei ben poco di plausibile, quindi chiudo qui
l'elucubrazione.
E
dunque, questo libro racconta la storia di Jeanne Hèbuterne e di
Amedeo Modigliani. Con tutto il dovuto contorno di arte e Parigi,
vita bohémien e tormenti per le opere inascoltate. Lo consiglio un
sacco, un sacco. Più per Jeanne che per Modigliani, che in un paio
di punti ha saputo veramente darmi i brividi. Non so se fosse questo
che voleva Francesca, magari è un approccio diverso a una scena che
vediamo identica. Comunque, mi è piaciuto moltissimo.
E
dunque, è passata qualche settimana da quando, leggendo Domani avrò
vent'anni di Alain Mabanckou, mi sono accorta di quanto la
letteratura proveniente da letterature geograficamente e
culturalmente “altre” in Italia fosse poca e poco celebrata.
Dell'argomento avevo chiacchierato brevemente qui, se aveste voglia
di farvi un giro tra le mie elucubrazioni. In questo post vorrei
segnalare alcune case editrici che pubblicano libri provenienti
proprio da quelle zone culturali qui poco diffuse, ecco.
Non
ne conosco poi molte, quindi in realtà questo elenco sarà –
tristemente – piuttosto breve. Dunque,
vediamo.
Ovviamente
la 66thand2nd, impronunciabile ma ganza casa editrice indipendente
che pubblica, insieme a Mabanckou – congolese – autori di origini
nigeriane come Noo Saro-Wiwa e Louise Soraya Black, ghanesi come
Mohammed
Naseehu Ali, e tanti altri scrittori provenienti da varie zone
dell'Africa. E un libro di Francis Scott Fitzgerald sul calcio, che
non c'entra molto con quello che sto scrivendo, ma mi pareva degno di
nota. Quindi se qualcuno sente di volerne sapere di più sulla
letteratura e sulla cultura africana, direi che questa è la prima
casa editrice da visitare.
Poi
c'è la Ponte 33, nata come associazione culturale per promuovere la
letteratura mediorientale. Pubblica autori pakistani, iraniani,
afghani e, seppure io ancora non l'abbia personalmente testata, mi
ispira moltissimo. Tra l'altro adoro le loro copertine, ce ne sono un
paio veramente stupende. E trovo che basterebbe solo leggere le trame
di un paio di libri per sfaldare un monte di pregiudizi. Comunque.
Edizioni Spartaco, di cui mi è capitato di chiacchierare un paio di volte,
pubblica anche scrittori di varie nazionalità. Come Suleiman
Cassamo, voce dal Mozambico, l'algerino Hamid Skif, e il terribile
Saddam City di Saeed Mahmoud, che narra la prigionia del protagonista
nelle prigioni irachene. La Spartaco, che si
fa voler bene già per ragioni puramente letterarie, è apprezzabile
anche per motivi, come dire, politico-sociali. Per la ricerca, in
molte delle sue pubblicazioni, di una voce chiaramente morale, anche
quando è confusa. Mica a caso hanno una collana che si chiama
Dissensi.
La
giovane Calabuig, ramo narrativo della Jaca Books, nasce col preciso
intento di pubblicare in Italia libri provenienti da paesi “altri”.
Hanno pubblicato l'arabo Sonallah Ibrahim, l'iraniana Goli Taraghi,
l'argentina Hebe Uhart. Tra l'altro di quest'ultima mi è piaciuto
moltissimo Traslochi.
La Nuova Frontiera – che pure ha delle copertine meravigliose – è
specializzata in letteratura sudamericana, ma ha pubblicato anche la
russa Alisa Ganieva e africani come Paulina Chiziane. A parte il
fatto che la sua letteratura sudamericana merita di per sé.
La
Del Vecchio, con le sue meravigliose copertine – sì, va bene, lo
so, sarò superficiale ma certe case editrice fanno dei loro libri
qualcosa di così visivamente stupendo che come si fa a non
parlarne? - pubblica in edizione economica (e prima o poi me lo
piglio) le storie del commissario Habib di Moussa Konatè, autore
malese, i libri della libanese Yasmine Ghata, nonché il marocchino
Fouad Laroui, di cui mi era piaciuto moltissimo Un anno con i francesi.
Cito
la SUR, per quanto assurdo sia, specializzata come la Nuova Frontiera
in letteratura sudafricana, con le sue copertine sgargianti che a me
personalmente piacciono moltissimo.
Di
recente poi Gargoyle ha pubblicato un fantasy di un'autrice
statunitense ma di origini nigeriane, Okorafor Nnedi, “Chi teme la
morte”, che fonde nei suoi libri elementi di mitologia africana e
di cultura americana. Quindi subodoro un risultato ganzo.
E
dunque, mi interrompo qui. Non perché non mi andrebbe di parlarne
oltre, ma perché ho un treno tra mezzora. Sapete com'è.
Vi
invito caldamente a lasciarmi consigli nei commenti, nell'assai
probabile caso mi fosse sfuggita qualche casa editrice.
Ah, già, la e/o. Diamine. Dovrò ampliare il post stasera appena torno.
Premetto,
con un vago senso di vergogna, che non ho mai visto il film tratto da
questo libro. Anzi, ammetto di aver tentato, una volta, anni e anni
fa, visto che un'amica me ne parlava con amorevole entusiasmo. Mi
sono addormentata dopo pochissimi minuti. E poi continuavo a pensare
alla signora Fletcher, e alla possibilità che la trama del film
virasse verso un macchinoso omicidio.
Quindi
faccio parte della sparuta minoranza che ha letto Pomi d'ottone e
manici di scopa di Mary Norton, tradotto da Emilia Lola
Poli, edito da Salani, senza averne adorato il film. Il
che penso sia un bene, visto che ho trovato una lunga lista di
nostalgici delusi su Anobii.
Ad
ogni modo, è un libro carino. E direi bello, se non fosse che lascia
quel preciso sorriso dato dalla parola “carino”, col
prolungamento della “i” centrale, e che sottintende molto più di
un giudizio medio. È carino forte.
Dunque,
ci sono questi tre giovani virgulti, Carey, Charles e Paul, che
passano l'estate in campagna dalla zia, poiché quella londinese
della loro madre deve lavorare. Non si sa bene quale sia il suo
lavoro, né viene specificato dove sia il loro padre. Lo sfondo non
esplicitato è lo stesso di Narnia, ovvero la guerra, nel periodo in
cui i frequenti bombardamenti facevano sì che i bambini venissero
spediti per quanto possibile in località remote, al sicuro.
I
tre pargoli sono dalla zia, quando incrociano Miss Price (citazione
voluta? Sì? No?), una raffinata donna vicina di casa che si è
slogata la caviglia cadendo dalla scopa. È Paul, il più piccolo, a
rivelare di averla vista in volo di notte, e a indovinare l'accaduto
guardando alla scopa abbandonata contro un albero. E a questo punto i
tre aiutano Miss Price, la accompagnano a casa e il giorno dopo si
ripresentano alla sua porta chiedendo chiarimenti. Qui avviene il
patto. Miss Price fa dono ai tre di un pomo da letto di ottone
incantato, che permette di viaggiare ovunque si voglia, a patto che i
tre non svelino mai il suo segreto di strega.
Ed
essenzialmente il libro prosegue così, come deve proseguire. Ed è
carino, veramente carino. Vorrei averlo letto da piccola, l'avrei
adorato.
Mi
spiace molto che non si trovi granché in giro. Ricordo di averlo
adocchiato un paio di volte in diverse libreria quando era appena
uscito, mi pare nel pieno del periodo natalizio dell'anno scorso, ma
poi più niente. È un vero peccato, perché oltre ad essere un
gioiellino della letteratura per l'infanzia, è anche davvero bello
da vedere. Almeno, a me la copertina piace moltissimo. Nello stesso
periodo era uscito un altro libro nella stessa collana Salani, con
una copertina similmente ganza e un prezzo parimenti abbordabile, ma
è scomparso dagli scaffali pure quello prima che potessi
acquistarlo. Il mulino dei dodici corvi, forse? Potrebbe essere,
eppure mi pare fosse un altro.
Ad
ogni modo, ovviamente lo consiglio. Non a chiunque, ma a chi gradisce
un tuffo nella letteratura per l'infanzia. A chi ancora adora Roald
Dahl. E a chi cerca un attimo di riposo e conforto dalla scrittura
della tesi. Ah-ehm.
Negli
ultimi tempi sto accettando più libri del solito dalle case
editrici. Oddio, più che altro capita più spesso che mi vengano
offerti libri ipoteticamente ganzi da case editrici di cui mi fido un
sacco come lettrice. Forse è il caso che mi dia una regolata,
comunque. Tipo un massimo di un libro ricevuto a'ggratis ogni due
recensioni di libri auto-finanziati. Cose così. Ho
un po' il terrore di ritrovarmi, un giorno, a gestire uno di quei
blog che fanno da ufficio stampa alle case editrici, quelli che sfoggiano errori di
battitura nei post, e un font grazioso ma illeggibile. Il cursore che
rilascia brillantini, immagini di gattini ammucchiate qua e là.
Diciamo che sto cercando di esorcizzare il terrore rivelandolo qui.
Confessioni terapeutiche.
Ad
ogni modo, mi accingo a recensire Hugo e Rose di Bridget Foley,
tradotto da Nello Giugliano e pubblicato in Italia dalla casa
editrice e/o, che 'sì cortesemente, come si sarà intuito
dall'inutilmente lunga introduzione, me ne ha fatto omaggio. Cosa per cui sentitamente ringrazio.
Dunque,
Hugo e Rose. Difficilmente avrei accettato in lettura un libro simile
proposto da un'altra casa editrice. Perché parla di sogni e regni
onirici, e quando si vira su questi temi, personalmente mi aspetto
sempre una fregatura, e una trama che progredisce per tappe fisse come “Lui e lei
sono due ragazzi che si incontrano da sempre nei propri sogni, poi si
incontrano nella vita reale, poi si innamorano, poi arriva il cattivo
che li vuole separare/fare un uso malefico del loro potere, poi lo
sconfiggono, poi vivono sempre felici e contenti”. Una cosa di
questo genere.
In
questo caso, la storia è diversa sin dalle premesse. Hugo e Rose non
sono due ragazzi. Rose è una donna adulta, sposata con Josh, che col
suo lavoro di chirurgo passa la maggior parte del suo tempo fuori casa, a sferruzzare pazienti. Hanno tre figli, due ragazzi di
otto e sei anni e una bimba di due. Avendo tre figli in età temibile
e un marito assente – fisicamente parlando, perché se avessero
tempo e spazio per avere una vita di coppia, ne sarebbero più che
felici, innamorati come sono – Rose è una mamma disperata. Si
sente fallita come educatrice, perché non esulta come gli altri
genitori alle partite dei figli, vorrebbe solo tornarsene a casa a
dormire. Si sente un mostro come donna, perché da quando è nata
Penny ha smesso di curare il proprio aspetto, ha iniziato a
ingrassare e a vestirsi in modo trasandato. Non si sente nemmeno
felice come moglie, perché sentendosi un mostro di donna, ha ridotto
all'osso i contatti col marito, che comunque, per quel poco di tempo
che riescono a passare insieme, ancora la adora.
Quindi
Rose si ritrova in questo periodo di stress e angoscia, a martoriarsi
perché non riesce a raggiungere un ideale impossibile di madre e
moglie da sit-com, e come consolazione ha i sogni.
Da
quando aveva sei anni, ogni notte Rose sogna di trovarsi insieme a
Hugo su un'isola fatta di sogni. Una spiaggia rosa i cui granelli di
sabbia ti fanno rimbalzare, un sottomarino tondo, di legno, col quale
attraversano i fiumi. I temibili mostri da combattere, la Città
Castello in lontananza, che non riescono a raggiungere, nonostante abbiano provato per tutta una vita. Hugo e Rose non invecchiano, nel
sogno, si sono fermati alla loro età più bella. Sono giovani,
forti, atletici. Tirano di spada, scalano montagne, sconfiggono i
Ragni giganti. Per Rose, quei sogni sono la liberazione da un momento
particolarmente duro e difficile della sua vita, rappresentano
l'unico momento della giornata in cui si sente davvero libera.
E
poi un giorno incontra Hugo. Hugo nella vita reale, alla cassa di un
fast-food. Ed è lì che la sua vita comincia a sgretolarsi. Inizia a sentirsi ossessionata, e la
situazione... beh, si evolve. E io non dico altro.
Ho
adorato il modo in cui il tema del sogno cozza contro la realtà,
disperdendola, sgretolandola. Quello che accade è plausibile, ed è questo l'aspetto che ho apprezzato di più. Si può
credere che questo è quello che succederebbe se due persone che
hanno passato la propria vita a sognarsi si incontrassero nella vita
reale. Ha perfettamente senso, e davvero non è poco, considerando le
premesse.
Quindi
sì, lo consiglio, e molto. Pur ammettendo che il finale mi ha
lasciata un po' incerta, troppo “aggettivo che non posso adoperare
perché diamine, sarebbe come svelare come finisce il libro, e
cotanto osare mi varrebbe il rispetto di me stessa.” Non che sia un
brutto finale, anche quello ha dopotutto un suo senso. Però mi ha lasciato con un
però. Anche se non credo si possa definire un “però” oggettivo.
A parte questo, diamine, mi è piaciuto un sacco.
Prima di iniziare a parlare del suddetto evento, è necessario che io lo ammetta pubblicamente: quest'anno il Festival della Mente è stato
proprio ganzo. Non che abbia partecipato a molti eventi, più per
tempo che per ragioni pecuniarie, che la maggior parte ha l'esorbitante prezzo di due caffè, ma ho apprezzato il programma,
ho sguardicchiato le offerte – prendendomi mentalmente a cinghiate perché,
cristo, ho da scrivere la tesi – e non ho potuto fare a meno di
pensare che quest'anno, beh, ben fatto. Proprio ben fatto.
Giorgio Fontana e Marco Missiroli, "La nostra carriera di lettori"
Ieri,
dunque, sono stata all'incontro con Giorgio Fontana e Marco
Missiroli, interamente dedicato alla loro carriera di lettori. Mente
mia fatti capanna. Del primo ho letto Morte di un uomo felice,
vincitore del Campiello nel 2014, libro infame e meraviglioso. Non so
spiegarmi perché qui non ne abbia ancora parlato, credo che dipenda
dal fermo martirio che racconta, che pretende un cervello sveglio,
sottile, capace di andare in profondità. Nulla di cui io abbia
potuto usufruire negli ultimi tempi, ecco. Di Missiroli, accidenti
degli accidenti, non ho ancora letto nulla. Il che è bizzarro,
perché è in cima alla mia Lista almeno da un paio d'anni. Mi è dispiaciuto arrivare all'evento impreparata, incapace di cogliere
gli eventuali auto-richiami letterari. Pazienza.
E
dunque, l'incontro.
Parto
col dire che, come di consueto, ho dimenticato di portarmi dietro
penna e taccuino. Ormai neanche me la prendo più, va bene così. È
il giusto prezzo della svagatezza. Di conseguenza, posso riportare solo vaghi spezzoni,
che con la mia memoria nuvoliforme non è che si possa andare tanto
lontano. Quindi andrò per sprazzi, impressioni e inesattezze.
Fontana
ha scritto un libro di potenza e crudezza terribili, su un magistrato
che va incontro alla morte, con le pagine che mandano ondate di paura
e di consapevolezza. Ti aspetti un tipo ombroso, con le spalle
piegate, la faccia buia di pensieri mesti. E ti ritrovi davanti uno che potrebbe starti davanti in fila al Lucca Comics, con un'aria così
allegra e innocua che ti verrebbe pure da passargli davanti con una spallata. Ha
quell'aria lì.
Missiroli
invece sorride poco, aveva sempre un'espressione assorta, rincagnato
su una sedia troppo bassa. Ho un po' sofferto, vedendo il modo in teneva in mano i libri, ripiegandone all'indietro la copertina. Dolore fisico.
Una
cosa che ho adorato dell'incontro è che hanno effettivamente
discusso di libri. Non si sono limitati a prepararsi una conferenza spezzettata, qualche frase messa bene, si sono accordati sui temi, ma senza incasellarsi in un discorso privo di sbocchi. Hanno parlato a turno
degli autori che li avevano formati come lettori prima che come
scrittori, e su questo hanno interagito. Si rispondevano
coerentemente. E questo, per chi frequenta incontri
letterari/culturali, non è poi così scontato. Ho adorato anche
l'aria di allegro rispetto che passava tra loro. Hanno affermato di
essere grandi amici, ed è facile crederlo. Anche perché si
abbracciavano ad ogni occasione, e quando privi di occasione, se ne creavano
una. Mi hanno messo addosso un buonumore spaventevole.
Un'altra
cosa che mi ha stupita è che non hanno infilato i propri libri nel
discorso. Mi aspettavo, magari, qualche collegamento intertestuale, rimandi ai loro personaggi e alle loro storie, il che non
sarebbe stato strano, dopotutto. Invece no, sono rimasti ancorati al
loro comune ruolo di lettore. Io ho letto questo, io quest'altro. Non
che mi sarebbe dispiaciuto sentirli parlare di “cose loro”, ma ho
un po' apprezzato questo punto, perché sottolinea il rispetto che
hanno per la lettura. Che non è solo un mezzo, uno strumento che
hanno usato per imparare a forgiare le parole. È lettura. Punto.
I
loro percorsi non potevano essere più differenti. Fontana ha
iniziato a leggere prestissimo e, avvalorando l'immagine da Lucca
Comics che me ne ero fatta, ha portato come pietra miliare della
propria carriera di lettore un numero di Topolino, con la costa giallo limone che spiccava sul tavolo. Ha parlato di un
autore particolare, di cui non ricordo il nome, delle sue storie con
una struttura sempre identica, con Zio Paperone che parte alla
ricerca di un tesoro, delle regole che infrange, delle avventure cui
va incontro. Del messaggio sottinteso, che bisogna infrangere le
regole per vivere un'avventura.
Missiroli,
invece, ha iniziato a vent'anni, cosa che lì per lì mi ha lasciata
perplessa. Sua madre, pensando di fare bene, l'aveva iniziato alla
lettura con L'Alchimista di Coelho, e la plausibile reazione di
Missiroli è stata “Ok, non leggerò mai più”. La sorella è
fortunatamente intervenuta fornendogli Ti prendo e ti porto via di
Niccolò Ammaniti e il padre ha in seguito provveduto con Il deserto
dei Tartari di Dino Buzzati. Da lettore ha rischiato
moltissimo, ma poi è andato tutto bene.
E
qui la mia memoria inizia a sgretolarsi. Entrambi hanno portato con sé
un sacco di aneddoti interessanti sugli scrittori, e mi è difficile
ricordare precisamente a chi affibbiare cosa. È Buzzati l'autore
rifiutato da 32 editori in Italia, e alla fine scoperto in Francia da
Camus? Mi pare. Mi sembra.
Altri
aneddoti interessantissimi: lo zio di William Somerset Maugham col
suo esercito di carlini, Ernest Hemingway che ha cantato per ben due
volte, in italiano, “Tutti mi chiamano bionda, ma io bionda non
sono” prima di spararsi, Emmanuele Carrère che ha tentato il
suicidio impiccandosi, dopo essere entrato nella testa del diavolo,
il barattolo di urina apocrifa portato dalla moglie pazza di Philip
Roth come prova della propria gravidanza. E c'era un aneddoto su Franz Kafka interessantissimo, peccato che non riesca assolutamente a
ricordarmelo. Diamine. Spero mi torni in mente, altrimenti mi
toccherà rompere le scatole direttamente a Fontana. Social network,
il cilicio degli scrittori.
Troppi
nomi per tenere le fila della discussione. Compaiono Saul Bellow, Il
teatro di Sabbath di Philip Roth, Il posto di Annie Ernaux, le
orecchie a punta e il fascino di Carrère, un sacco di Dostoevskij
coi i suoi demòni, Il commesso di Malamud col suo ebraismo laico,
Stig Dagerman che si è ammazzato a 31 anni, e il suo Bambino
bruciato, Il processo di Kafka, Il vecchio e il mare di Hemingway,
che si è sparato sul linoleum per facilitare la pulizia.
Un
sacco di scrittori, un sacco di libri, qualche incipit, un paio di
posologie. Un incontro interessantissimo, di rara
possanza letteraria. Che non mi capita spesso di ascoltare qualcuno
che ama i libri, che di libri ne sa a pacchi, e ne parla come se il suo
interlocutore ne sapesse altrettanto.
In
sintesi, la mia Lista ha subito un'impennata. Devo recuperare il più
presto possibile Kafka e Carrère, prima di tutto. Poi vedremo.
Intanto, nonostante fossi uscita col chiaro intento di non spendere
nemmanco i soldi di un caffè, che il mio budget per i libri si è
frantumato sbattendo contro l'operazione ai calcoli del mio gatto, ho
finito con l'incagliarmi contro il banchetto dei libri, per
agguantare Per legge superiore di Fontana e Il senso dell'elefante di
Missiroli.
Ho
anche assistito a una scena adorabile mentre attendevo il mio turno
per farmi firmare Per legge superiore. Una bambina minuscola (sei
anni? Di meno? Di più? Chissà) ha voluto farsi autografare un
foglio bianco da Fontana, e lui era tutto contento e gongolante.
E
beh, dunque.
Per
ovvi motivi non posso ancora pronunciarmi letterariamente su
Missiroli, che seppure mi sia stato plurimamente consigliato da genti
fidate, ancora non l'ho letto. Fontana invece ho già avuto modo di
adorarlo con Morte di un uomo felice. A parte questo, posso affermare
con sicurezza che sono due Signori Lettori, e che l'incontro ha meritato tutto il mio entusiasmo. In anni di Festival della Mente e di incontri con gli autori, posso dire che questo è stato il più letterariamente
meraviglioso cui io abbia mai assistito. Quindi se mai passassero
dalle vostre parti, insieme o singolarmente, diamine, andate. E
divertitevi.
Beh,
sì, come da titolo trattasi di un post davvero raffazzonato.
Affibbio volentieri la colpa di tanta fretta, e degli eventuali
ancorché sicuri errori di battitura, al fatto che devo lavorare alla
tesi, nella cui scrittura sono dannatamente indietro. Diamine.
Tra
il celebrare e l'affossare – Una decisa presa di posizione su un
problema che non sussiste
Questa
è una faccenda di incomparabile frivolezza, alla quale ho perfino rischiato
di dedicarvi un post intero. È andata bene così, via. Sarebbe
andata ancora meglio se avessi evitato di parlarne del tutto, ma la vita è fatta anche di delusioni.
Qualche
tempo fa è comparsa sull'Internet siffatta immagine, vignetta di
Wolfrad Senpai, dalla quale sono scaturiti qua e là dibattiti
sul comportamento di alcuni lettori, sul loro tirarsela e sulla loro
auto- emarginazione.
La
questione è presto detta: alcuni lettori sono snob e tendono a
tracciare una decisa linea di demarcazione tra “Lettori” e
“Non-Lettori”, in quanto “il resto del mondo è sciocco e
superficiale, noi siamo i meglio e abbiamo l'esclusiva del pensiero
critico”.
È
vero, pure nella mia parzialità di Lettrice un po' snob – negare è
condiscendenza, e non non v'è mancanza di rispetto più urticante –
devo ammettere che di siffatte menti ne esistono eccome, e non ha
importanza se leggano Joyce e Woolf o se si assestino su Twilight e
simili. Leggere non ti rende automaticamente migliore. In compenso,
etichettare le persone con facilonerie generiche qualche punto lo
toglie.
E
tuttavia, penso che l'essere lettori sia da celebrare lo stesso.
Senza stare ad affossare “gli altri” con comparazioni
improbabili. Semplicemente, è bello sentirsi parte di una comunità
ampia e stratificata come quella dei Lettori, e sapere di avere in
comune esperienze e moti d'animo. La lettura è una passione
particolare, che prevede solitudine e una personalissima dose di
silenzio. Il Lettore non può fare a meno di isolarsi un po', per
necessità contestuali o per il mero fatto che, beh, siamo una
percentuale risibile, e forse è normale che si finisca per
inneggiare alla solitudine un po' troppo, e c'è poi chi passa dal
“che bello starsene in pace a leggere” all'inquietante “che
brutti gli altri che non leggono”.
Capita.
Ma di per sé, postare immagini su quanto sia bello leggere non è
più snob di indossare la maglia di un certo gruppo musicale. Si sta
comunque tagliando in due il mondo, mandando un messaggio diverso a
chi condivide i propri gusti e chi no. Pace. Non leggiamo malvagia
supponenza in ogni comunicazione volta a dire bene della letteratura,
distinguiamo le emerite boiate dai semplici e benefici atti di
allegro entusiasmo.
Posto
che ai tempi, ricordo di aver scelto l'appartamento universitario
basandomi sugli scaffali delle librerie. Ehi, io non divido
la stanza con una bibliografia di Moccia.
Strani
Mondi
Per
la gioia di tutti gli appassionati (tranne me, che in teoria dovrei
laurearmi pochi giorni dopo e dunque dubito che oserò alzare gli
occhi dalla tesi) tra il 10 e l'11 ottobre avrà luogo a
Milano il primo Festival italiano del libro fantastico e di
fantascienza, col nome Strani Mondi. A guardare il programma, pare
che sarà una cosa veramente ganza, con diverse case editrici e
ospiti internazionali. Soprattutto, punto sul fatto che diamine, è
il primo festival italiano di fantastico e fantascienza. Spero
che vada nel migliore dei modi, e che diventi un appuntamento fisso
ogni anno.
C'è
un crowdfunding collegato all'iniziativa, e vi chiederei di
considerare la possibilità di un'offerta. Visto che si tratta di una
cosa ganza, che parte dal basso, dal sogno di editori indipendenti.
Lascio qui il link per l'obolo e qui il link del sito
ufficiale, così potete guardarvi il programma.
Colonialismo
letterario
Un
paio di giorni fa ho chiacchierato qui di un libro che mi è piaciuto
moltissimo, Domani avrò vent'anni di Alain Mabanckou, e su quella
particolare lettura non ho più granché da dire. Piuttosto, avrei da
chiacchierare del contesto letterario in cui mi è capitato di
leggerla. Vorrei, e so che sto inerpicandomi per territori che non mi
competono in quanto book-blogger, che cercassimo di discutere e
capire com'è che la letteratura africana, da noi, ha così poco
rilievo. Anzi, di rilievo non ne ha proprio. Non è che non venga
considerata, è che proprio non esiste. Ignoro se si tratti di una
situazione comune a tutto l'Occidente, o se sia una nostra
particolarità, anche se mi verrebbe da puntare sulla prima opzione.
Il fatto è che, mentre l'Africa sembra vivere culturalmente del
nostro riflesso – almeno, così mi ha portato a ipotizzare il libro
di Mabanckou e la parte che l'Occidente vi ha giocato in assenza –
a noi sembra non fregarcene praticamente nulla di quanto avviene un
poco più a sud del nostro mondo.
Anni
fa ho letto un articolo, di cui ho dimenticato tutto tranne il sunto
del contenuto. Non ricordo l'autore, né la testata. So che a parlare
era uno scrittore africano che parlava di come la cultura occidentale
continui a imporsi in Africa, e di come la cultura africana trovi le
porte chiuse in Occidente, a meno che non si accontenti di
ingabbiarsi nelle aspettative tribali degli occidentali. E temo che
un po' sia vero.
Tra
l'altro, tra i – non molti – autori non occidentali pubblicati da
noi, figurano soprattutto giapponesi, cinesi e indiani. Si tratta di
culture che si sono fortemente fuse con le nostre, che abbiamo
compreso e annesso grazie ai punti di contatto che abbiamo saputo
forzarvi. E forse tra i motivi per cui sono così accettate c'è
anche la possibilità di apprezzare il contrasto tra “noi” e
“loro”, come ci vedono “loro” e come “noi” possiamo
vederci attraverso “loro”. Giappone, Cina e India hanno avuto
storie coloniali lunghe e particolari, e questo si riflette nella
loro letteratura. Almeno, in quella che arriva fino a noi.
Oltretutto,
ho fatto una rapida ricerca sugli unici autori africani pubblicati in
Italia e praticamente tutti hanno vissuto in Occidente –
Inghilterra, Francia o USA – prima di pubblicare. Niente casi di
best-seller africani, scritti in lingue africane i cui diritti sono
stati acquistati per il nostro mercato. Almeno, per quello che ho
potuto vedere in pochi minuti di ricerca su Google.
Questo
libro l'ho preso per caso, o per fortuna. Mi trovavo a Torino da
un'amica e non avevo più niente da leggere. Mi ero portata dietro
soltanto Storia della bambina perduta della Ferrante – finito che
ero ancora sul megabus – e un libro che mi stavo costringendo a
leggere e che proprio, davvero, non mi piaceva. Avevo finito
Fortunately the milk di Neil Gaiman – in Italia L'esilarante
mistero del papà scomparso, ma la mia amica aveva la versione
originale – e dunque mi trovavo in procinto di tornare a casa in
treno, con quelle belle quattro ore di viaggio, senza nulla da
leggere. A parte il libro che non mi piaceva e un paio di testi
universitari. Che fare dunque, se non fiondarmi dal Libraccio più
vicino, che è praticamente sotto casa della mia amica? Ne sono
riemersa con Copia-e-incolla di Danny Wallace, che mi ha fatto
compagnia durante quel viaggio, e Domani avrò vent'anni di Alain
Mabanckou, di cui mi accingo a chiacchierare, che ho divorato in un
paio di giorni più o meno la settimana scorsa.
Dunque,
Domani avrò vent'anni. Come dicevo, scritto da Alain
Mabanckou, tradotto da Alice Volpi e pubblicato in Italia
dalla 66thand2nd, casa editrice attorno alla quale giro
intorno come uno squalo ad ogni Salone del Libro, senza mai decidermi
ad attaccare.
E
alla fine ho attaccato con questo. E meglio di così non poteva
andare.
Il
protagonista, nonché narratore, è Michel, un bambino di circa dieci
anni che abita con la madre e, saltuariamente, col padre adottivo.
Lei vende noccioline, lui lavora come custode in un albergo, lavoro
tutto sommato di una certa rispettabilità. Michel ha anche uno zio,
fratello della madre, l'assoluto comunista René. Uno di quelli coi
soldi, però.
E
Michel racconta della sua vita, giorno per giorno. Racconta della
bellissima madre, Mamma Pauline, di come ha conosciuto il suo padre
adottivo, papà Roger. Dell'altra famiglia di papà Roger, quella con
Mamma Martine, e tutti i figli che per Michel sono come fratelli di
sangue. Racconta del suo migliore amico, Lounès, e della sorella
minore, di cui è innamorato, Caroline. Racconta di cose piccole e di
cose grandi, partendo da se stesso. Racconta di Pointe-Noire, della
Repubblica del Congo, della sua storia, della sua politica, per quello che possono rappresentare per un bambino di dieci anni.
E
qui è dove un libro già bello di per sé – perché sono belli i
personaggi, ed è bello il modo di raccontare – diventa qualcosa di
speciale. Almeno qui, almeno per me.
Io
non conosco granché dell'Africa, né molti autori africani. Mi rendo
conto di saperne molto più di quanto non ne sappia la media della
popolazione occidentale, grazie a qualche esame universitario ben
mirato. Eppure, se ci penso bene, non so quasi nulla. Dal punto di
vista culturale e letterario, per me l'Africa è lontana quanto la
Luna. E i punti di contatto sono quelli che abbiamo forzato,
piantando la nostra cultura in quella africana. In Domani avrò
vent'anni “i bianchi” compaiono un sacco, anche se in assenza.
Come esempio, come monito, come spauracchio. Sento, in Michel, una
rispetto reverenziale di quelli che col tempo si trasformano in
disprezzo.
Ma
non voglio cambiare discorso. Scriverò un post a parte, per chiacchierare di un argomento che ormai ha preso a frullarmi in testa. Domani avrò vent'anni è un gran bel
libro, punto. Per il fatto che a narrare è Michel, per come Michel
fa esperienza del mondo, e per come lo interiorizza visto dagli occhi
degli adulti che gli stanno accanto. Michel è un bambino fantasioso,
gentile, che sfoglia di nascosto un libro di poesie di Rimbaud nella
stanza di papà Roger, e che cerca disperatamente una chiave tra i
rifiuti.
E
sì, c'è anche da menzionare il fatto che è bello conoscere cose
nuove, e diversi “come”.